di Amador Fernández-Savater
Se oggi le forze di emancipazione sono così deboli è proprio perché hanno perso il contatto con l’intuizione del ‘68. Non si interrogano più sulle forme di vita desiderabili, ma si limitano alle opinioni critiche, alle politiche comunicative, alla resistenza in cui niente resiste. Per riprendere l’iniziativa, dobbiamo porre di nuovo la questione sul piano del desiderio: che tipo di esseri umani siamo? E come vogliamo essere?
Ma occorre farlo in condizioni diverse, perché oggi viviamo in un’altra economia del desiderio, molto diversa da quella degli anni Sessanta. Il neoliberalismo non solo reprime o disciplina, ma intensifica le energie: mobilita, agita, stimola. Non più verso il risparmio, la moderazione, la serietà, ma verso il superamento indefinito di noi stessi. Non vieta ma impone, alimenta un tremendo “potere” interno che siamo portati a credere nostro. Eppure, accade anche qualcos’altro: nel farsi carico del desiderio il neoliberalismo lo maltratta e provoca un’enorme sofferenza. Èd è da lì che può nascere la speranza di una lotta che non è necessariamente epica, eroica e nemmeno solo collettiva. Possiamo recuperare il contatto col nostro desiderio come centro di gravità, cercare di interrompere la logica predatoria della relazione con tutto, affermare altre intensità (più sottili, con alti e bassi) e un’altra relazione con esse. Le cose, nella sostanza, si possono cambiare solo iniziando a vivere in un altro modo. Questa è l’intuizione del ‘68. Oggi sono solo cambiate le condizioni e i termini della sfida.
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