La condizione delle donne immigrate delle periferie francesi: ne parla Sihem Habchi, dell’associazione femminista "Ni putes ni soumises".
I conflitti religiosi e le contraddizioni che le differenze culturali pongono all'interno delle società sono stati tra i temi più dibattuti della rassegna “Torino Spiritualità” che si è svolta dal 19 al 24 settembre. In particolare, l'incontro che ha visto come ospite Sihem Habchi, vice presidente dell’associazione femminista francese "Ni putes ni soumises", ha posto al centro del dibattito la condizione delle donne immigrate che vivono nelle periferie francesi. Sihem Habchi ne ha parlato con Anna Bravo, docente di Storia sociale all'Università di Torino, che si è a lungo occupata di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei e di storia orale.
“Ni Putes Ni Soumises”, 'Né puttane né sottomesse', rivela sin dal nome la volontà di ribaltare lo stereotipo che definisce e discrimina le donne in base al binomio moralità-sessualità, e di opporsi alla emarginazione a cui nei quartieri-ghetto delle periferie francesi sono costrette le donne, emigrate di seconda e terza generazione, in prevalenza di origine maghrebina.
Fondato da Fadela Amara, attivista per i diritti umani di origine algerina, il movimento nasce nel 2003, in continuità con la “Marcia delle donne contro i ghetti e per l'eguaglianza” che dopo avere attraversato la Francia arriva a Parigi l'otto marzo accolta da oltre 30.000 manifestanti. A ispirarne la nascita, gli innumerevoli episodi di violenza quotidiana contro le donne, vittime del maschilismo, dell’integralismo islamico e del degrado dei quartieri in cui vivono.
La storia di Sohanne Benziane, di origine algerina, bruciata viva a Vitry sur Seine a 19 anni perché aveva rifiutato di cedere a un suo coetaneo, o quella di Samira Bellil, più volte picchiata e violentata dalla banda del suo quartiere perché ritenuta troppo “libera”, che ha trovato la forza di reagire denunciando i suoi aguzzini e scrivendo un libro in cui narra la sua odissea: Dans l'enfer des tournantes (trad. it. Via dall'inferno, Fazi Editore, Roma 2004), sono diventate il simbolo della battaglia che l'associazione conduce.
Le ricorda entrambe Sihem Habchi, nella sua appassionata denuncia di una oppressione che parte dall'interno delle famiglie, delle comunità, ma che attraversa anche le istituzioni e le politiche sociali di accoglienza e di tutela delle fasce più emarginate della popolazione. Alla radice della violenza, sostiene Sihem Habchi, c'è un sistema tradizionale di codici culturali e religiosi che nega alle donne il diritto di decidere del proprio corpo, della propria vita, ma c’è anche il razzismo della società francese, incapace di integrare e indifferente di fronte alla povertà e al disagio delle periferie.
Un disagio che la rivolta delle banlieus, scoppiata giusto un anno fa, ha drammaticamente messo a nudo.
«La disoccupazione e l'abbandono scolastico tra i giovani sono altissimi. La mancata integrazione dei cittadini stranieri radicalizza meccanismi di identificazione comunitaria e religiosa, costringe gli immigrati a reazioni di chiusura e di difesa e favorisce l'integralismo islamico». E a pagarne il prezzo più alto sono le donne. Denunciare le violenze subite le sottopone a un doppio ricatto che le costringe al silenzio, da un lato la paura di subire l'ostracismo della comunità e ulteriori violenze, dall'altro l'uso strumentale che una parte della società francese, quella più oltranzista e xenofoba, fa delle loro sofferenze.
«Le donne dei quartieri sanno che rifiutare le imposizioni della comunità di appartenenza significa pagare la propria libertà di scelta con un disprezzo che spesso sfocia in atti di intimidazione e violenza» afferma Sihem Habchi.
Per rompere la logica del ghetto, l'associazione ha scelto di appoggiare la legge che in Francia vieta il velo nelle scuole, così come vieta l’esibizione di tutti i simboli religiosi: «Io sono musulmana, sono credente, ma rivendico con forza un modo diverso di esserlo. L'uso del velo non è una pratica obbligatoria, è diventato invece uno strumento politico dell'islamismo radicale. Il velo viene imposto alle donne e la Repubblica ha il dovere di proteggerle. La legge permette alle ragazze che sono obbligate a portare il velo di liberarsene, ma non sarà sufficiente se non verrà accompagnata da politiche di inclusione».
Su questo tema, "Ni putes ni soumises" si è scontrato anche con una parte del movimento femminista e della sinistra francese che in nome della tolleranza culturale e religiosa sostiene invece l'uso del velo nelle scuole. Il dibattito è certo ben più vasto, ricorda Anna Bravo, e pone molti interrogativi al movimento femminista. Il diritto all'autodeterminazione, la legittimità della lotta per sottrarre al potere, alla cultura maschilista, alla Chiesa, il controllo sul corpo delle donne, ha valore in sé o riguarda solo la cultura occidentale? E ancora: un malinteso senso di relativismo culturale non finisce col legittimare quei fondamentalismi che in tante parti del mondo condannano le donne all'invisibilità e al silenzio? La questione ci riguarda tutte, come ripetono diverse donne tra il pubblico, anche in Italia si stanno riaffermando derive fondamentaliste che vorrebbero sottrarci libertà e diritti.
Nella conversazione con Anna Bravo, Sihem Habchi ritorna più volte sull'importanza della laicità come garante di tutti i cittadini e le cittadine, senza distinzioni di genere, religiose e etniche. «La laicità, l'uguaglianza, la mescolanza di culture e generi sono i principi che caratterizzano la nostra associazione perché riteniamo che siano strumenti indispensabili per un vero progetto di convivenza. Per questa ragione abbiamo dedicato molte energie all'apertura della Maison de la Mixité, una 'casa della mescolanza', che abbiamo inaugurato quest'anno a Parigi. È uno spazio sociale comune in cui donne e uomini possano incontrarsi e dialogare, nell'uguaglianza e nel rispetto, per superare le barriere fisiche e culturali in cui è frammentata la nostra società».
Il movimento “Ni Putes Ni Soumises” ha un suo sito web: npns.fr
Cati Schintu
pubblicato su DonneInViaggio del 05.12.2006
sono stati tra i temi più dibattuti della rassegna “Torino Spiritualità” che si è svolta dal 19 al 24
settembre. In particolare, l'incontro che ha visto come ospite Sihem Habchi, vice presidente dell’
associazione femminista francese "Ni putes ni soumises", ha posto al centro del dibattito la condizione
delle donne immigrate che vivono nelle periferie francesi. Sihem Habchi ne ha parlato con Anna Bravo,
docente di Storia sociale all'Università di Torino, che si è a lungo occupata di storia delle donne, di
deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei e di
storia orale.
“Ni Putes Ni Soumises”, 'Né puttane né sottomesse', rivela sin dal nome la volontà di ribaltare lo
stereotipo che definisce e discrimina le donne in base al binomio moralità-sessualità, e di opporsi
alla emarginazione a cui nei quartieri-ghetto delle periferie sono costrette le donne, emigrate di
seconda e terza generazione, in prevalenza di origine maghrebina.
Fondato da Fadela Amara, attivista per i diritti umani di origine algerina, il movimento nasce nel
2003, in continuità con la “Marcia delle donne contro i ghetti e per l'eguaglianza” che dopo avere
attraversato la Francia arriva a Parigi l'otto marzo
accolta da oltre 30.000 manifestanti. A ispirarne la nascita, gli innumerevoli episodi di violenza
quotidiana contro le donne, vittime del maschilismo, dell’integralismo islamico e del degrado dei
quartieri in cui vivono.
La storia di Sohanne Benziane, di origine algerina, bruciata viva a Vitry sur Seine a 19 anni perché
aveva rifiutato di cedere a un suo coetaneo, o quella di Samira Bellil, più volte picchiata e
violentata dalla banda del suo quartiere perché ritenuta troppo
“libera”, che ha trovato la forza di reagire denunciando i suoi aguzzini e scrivendo un libro in cui
narra la sua odissea: Dans l'enfer des tournantes (trad. it. Via dall'inferno, Fazi Editore, Roma
2004), sono diventate il simbolo della battaglia che l'associazione conduce.
Le ricorda entrambe Sihem Habchi, nella sua appassionata denuncia di una oppressione che parte
dall'interno delle famiglie, delle comunità, ma che attraversa anche le istituzioni e le politiche
sociali di accoglienza e di tutela delle fasce più emarginate della popolazione. Alla radice della
violenza, sostiene Sihem Habchi, c'è un sistema tradizionale di codici culturali e religiosi che nega
alle donne il diritto di decidere del proprio corpo, della propria vita, ma c’è anche il razzismo della
società francese, incapace di integrare e indifferente di fronte alla povertà e al disagio delle
periferie.
Un disagio che la rivolta delle banlieus, scoppiata giusto un anno fa, ha drammaticamente messo a nudo.
«La disoccupazione e l'abbandono scolastico tra i giovani sono altissimi. La mancata integrazione dei
cittadini stranieri radicalizza meccanismi di identificazione comunitaria e religiosa, costringe gli
immigrati a reazioni di chiusura e di difesa e favorisce l'integralismo islamico». E a pagarne il
prezzo più alto sono le donne. Denunciare le violenze subite le sottopone a un doppio ricatto che le
costringe al silenzio, da un lato la paura di subire l'ostracismo della comunità e ulteriori violenze,
dall'altro l'uso strumentale che una parte della società francese, quella più oltranzista e xenofoba,
fa delle loro sofferenze.
«Le donne dei quartieri sanno che rifiutare le imposizioni della comunità di appartenenza significa
pagare la propria libertà di scelta con un disprezzo che spesso sfocia in atti di intimidazione e
violenza» afferma Sihem Habchi.
Per rompere la logica del ghetto, l'associazione ha scelto di appoggiare la legge che in Francia vieta
il velo nelle scuole, così come vieta l’esibizione di tutti i simboli religiosi: «Io sono musulmana,
sono credente, ma rivendico con forza un modo diverso di esserlo. L'uso del velo non è una pratica
obbligatoria, è diventato invece uno strumento politico dell'islamismo radicale. Il velo viene imposto
alle donne e la Repubblica ha il dovere di proteggerle. La legge permette alle ragazze che sono
obbligate a portare il velo di liberarsene, ma non sarà sufficiente se non verrà accompagnata da
politiche di inclusione».
Su questo tema, "Ni putes ni soumises" si è scontrato anche con una parte del movimento femminista e
della sinistra francese che in nome della tolleranza culturale e religiosa sostiene invece l'uso del
velo nelle scuole. Il dibattito è certo ben più vasto, ricorda Anna Bravo, e pone molti interrogativi
al movimento femminista. Il diritto all'autodeterminazione, la legittimità della lotta per sottrarre al
potere, alla cultura maschilista, alla Chiesa il controllo sul corpo delle donne ha valore in sé o
riguarda solo la cultura occidentale? E ancora: un malinteso senso di relativismo culturale non finisce
col legittimare quei fondamentalismi che in tante parti del mondo condannano le donne all'invisibilità
e al silenzio? La questione ci riguarda tutte, come ripetono diverse donne tra il pubblico, anche in
Italia si stanno riaffermando derive fondamentaliste che vorrebbero sottrarci libertà e diritti.
Nella conversazione con Anna Bravo, Sihem Habchi ritorna più volte sull'importanza della laicità come
garante di tutti i cittadini e le cittadine, senza distinzioni di genere, religiose e etniche. «La
laicità, l'uguaglianza, la mescolanza di culture e generi sono i principi che caratterizzano la nostra
associazione perché riteniamo che siano strumenti indispensabili per un vero progetto di convivenza.
Per questa ragione abbiamo dedicato molte energie all'apertura della Maison de la Mixité, una 'casa
della mescolanza', che abbiamo inaugurato quest'anno a Parigi. È uno spazio sociale comune in cui donne
e uomini possano incontrarsi e dialogare, nell'uguaglianza e nel rispetto, per superare le barriere
fisiche e culturali in cui è frammentata la nostra società».
Il movimento “Ni Putes Ni Soumises” ha un suo sito web: http://http://www.niputesnisoumises.com
Cati Schintu