È una donna dall’aspetto fragile Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione birmana, premio Nobel per la pace, che con il suo attivismo ispirato ai principi della non violenza da quasi vent’anni tiene testa a un regime dittatoriale spietato e brutale.
“La Signora”, come la chiama con affetto il popolo birmano, a cui il governo impedisce anche di pronunciarne il nome, è diventata il simbolo di un paese oppresso e umiliato che non cessa di lottare pacificamente per la democrazia e che alla violenza del potere oppone la propria dignità.
Anche nelle recenti manifestazioni che si sono svolte tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre di quest’anno, guidate da monaci e monache buddisti, e represse con inaudita violenza dai militari, Aung San Suu Kyi è stata il principale punto di riferimento per il suo popolo e per la comunità internazionale. L’inviato speciale dell’Onu Ibrahim Gambari, giunto in Birmania (1) per tentare di avviare un dialogo con il regime e esprimere la preoccupazione del mondo per la sorte degli oppositori, ha voluto incontrarla a Rangoon, e nonostante le resistenze del regime è riuscito a vederla due volte, prima e dopo i colloqui con il generale Than Shwe.
Alla causa della sua gente, Aung San Suu Kyi ha sacrificato la propria libertà e la propria vita privata, anche quando, nel 1999, potendo tornare a Londra per rivedere il marito malato di cancro, ha rinunciato perché il regime le avrebbe impedito di rientrare in Birmania.
Centrali, nella sua scelta radicale di condividere fino in fondo le sofferenze e la lotta per la libertà del popolo birmano, sono stati la sua fede buddista, gli insegnamenti del Mahatma Gandhi e l’esempio di impegno civile dei suoi genitori. Nel discorso per la consegna del Premio Nobel per la pace assegnatole nel 1991, e che Aung San Suu Kyi non ritira personalmente perché si trova a Rangoon agli arresti domiciliari, afferma: «Non potrei proprio, in quanto figlia di mio padre, restare indifferente riguardo a ciò che accade nel mio paese […] questa crisi nazionale potrebbe in realtà essere definita come la seconda lotta per l’indipendenza birmana».
Il padre, Aung San, un importante esponente politico, guidò la Birmania nella lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Fu ucciso insieme ad altri dirigenti in un attentato nel 1947, quando Aung San Suu Kyi aveva appena due anni. Sua madre, Khin Kyi, divenne una figura politica di spicco nella Birmania indipendente e nel 1960 fu nominata ambasciatrice in India.
Aung San Suu Kyi segue sua madre in India, qui frequenta le migliori scuole del paese, in seguito si trasferisce in Inghilterra per studiare scienze politiche, economia e filosofia alla Oxford University.
Dopo la laurea, continua i suoi studi a New York e nel 1972 inizia a lavorare per le Nazioni Unite. Si sposa con uno studioso della cultura tibetana, ha due figli.
La vita di Aung San Suu Kyi subisce un brusco cambiamento quando, nel 1988, dopo quasi trent’anni di assenza, rientra in Birmania per assistere la madre gravemente malata. Il Paese, oppresso fin dal 1962 da una feroce dittatura, attraversa una drammatica crisi economica e sociale e proprio quell’anno scoppiano le prime proteste popolari guidate dalle opposizioni e dalle minoranze etniche perseguitate dal regime militare del generale U Ne Win. Migliaia di uomini e donne, studenti, agricoltori, operai, dipendenti pubblici, monaci buddisti, cristiani, musulmani, intellettuali, artisti, invadono pacificamente le strade per chiedere riforme democratiche.
Aung San Suu Kyi fa propria la causa del suo paese e diventa la voce e l’icona del movimento non violento per la pace e il rispetto dei diritti civili. Nello stesso anno fonda quello che diverrà il principale partito d’opposizione al regime, la Lega nazionale per la democrazia (Nld).
Dopo le dimissioni del generale U Ne Win, la nuova giunta militare, denominatasi Consiglio per la Restaurazione della Legge e dell'Ordine dello Stato (Slorc), reagisce uccidendo migliaia di uomini, donne e bambini in tutto il paese. Ma nonostante gli arresti in massa, la stessa Aung San Suu Kyi viene costretta agli arresti domiciliari, il ricorso sistematico alla tortura, le sparizioni degli oppositori, le dimostrazioni continuano.
Grazie alle pressioni internazionali, e probabilmente confidando nel fatto che i leader dell’opposizione sono stati messi a tacere in carcere, nel 1990 il governo indice libere elezioni. La vittoria del partito di Aung San Suu Kyi è schiacciante, ottiene l’82 per cento dei voti, ma la giunta militare si rifiuta di riconoscere il risultato e riprende il potere.
Aung San Suu Kyi viene rilasciata nel 1995, dopo sei anni di arresti domiciliari, e prende subito contatto con la Lega per la democrazia: «Quando [...] ci reincontrammo, quella sera, decidemmo semplicemente di riprendere da dove avevamo lasciato sei anni prima. Quel giorno resta impresso nella mia memoria non come una giornata storica, ma come un giorno di serena determinazione», racconta nel suo libro Lettere dalla mia Birmania del 1995, pubblicato in Italia nel marzo di quest’anno (2).
Nei sette anni di relativa libertà Aung San Suu Kyi, pur sottoposta a pesanti restrizioni e intimidazioni, prosegue la sua attività a favore del ripristino della legalità e denuncia le condizioni spaventose in cui è costretta a vivere la popolazione, privata dei diritti più elementari.
Fa sentire la sua voce anche alla conferenza mondiale delle donne a Pechino, nel 1995, a cui invia una testimonianza, non potendo partecipare fisicamente. «Nessuna donna ha mai iniziato una guerra, ma sono le donne e i bambini che sopportano le sofferenze maggiori in caso di conflitti» si legge nel suo discorso. «C’è un vecchio proverbio birmano che i maschi citano per negare alle donne la possibilità di partecipare al processo di cambiamento e al progresso della società: “L’alba viene solo quando canta il gallo”. Ma i birmani oggi conoscono le ragioni scientifiche che determinano alba e tramonto. E il gallo saggio sa di cantare perché è sorto il sole e non viceversa. Sa di cantare per dare il benvenuto alla luce che cancella le tenebre della notte. Non è una prerogativa maschile portare la luce al mondo: le donne, con la loro capacità di compassione, di sacrificare se stesse, con il loro coraggio e la loro perseveranza, hanno fatto molto per dissipare le tenebre dell’intolleranza e dell’odio, della sofferenza e della disperazione» (3).
Certo Aung San Suu Kyi ha ben presenti le sofferenze delle donne birmane, la drammatica condizione delle donne Karen, Shan, Kachin e delle numerose altre minoranze etniche che popolano la Birmania, sottoposte da decenni a ogni genere di violenza da parte dei militari. Naw Zipporah Sein, la responsabile dell’Organizzazione delle Donne Karen attiva in territorio tailandese, in un’area che ospita campi profughi e organizzazioni di esuli e dissidenti birmani, denuncia: «Molte donne Karen sono state uccise o stuprate dai soldati, altre sono rimaste vedove o hanno visto uccidere i loro figli, oppure sono state costrette a lasciare le loro case e le loro terre. I soldati distruggono i villaggi e bruciano le scorte di cibo. I bambini muoiono per carenza di cure mediche e di assistenza. Io sogno una vita senza guerra e sostengo coloro che come San Suu Kyi lottano per la pace e la giustizia» (4).
Nel 2000 Aung San Suu Kyi viene nuovamente arrestata ed è solo grazie alle pressioni delle Nazioni Unite che dopo due anni le viene concessa la libertà vigilata. Temporaneamente libera, viaggia per il paese con la carovana della Lega Nazionale per la Democrazia, visita i monasteri buddisti, arriva nei villaggi più desolati, incontra la sua gente. Il senso del suo agire politico è sempre nella vicinanza e nella condivisione delle sofferenze degli altri, nella sua straordinaria umanità. In Lettere dalla mia Birmania scrive: «Molti sostengono che non sia pertinente, in politica, parlare di concetti come metta (bontà-tenerezza) e thissa (verità). Ma la politica riguarda la gente, [...] l’amore e la verità riescono a motivare la gente infinitamente di più di ogni sorta di coercizione».
Durante uno di questi viaggi, nel 2003, un gruppo di militari spara sul suo convoglio nel tentativo di ucciderla. Nell’imboscata muoiono almeno 70 persone, tra cui il vicepresidente della lega Nazionale per la Democrazia, lei si salva ma viene condannata agli arresti domiciliari a cui è tuttora costretta.
Da allora non si hanno quasi più notizie su di lei, la sua casa è presidiata dai militari e non è consentito avvicinarla, persino nominarla è vietato. Eppure, come i recenti avvenimenti hanno dimostrato, è sempre nel cuore dei birmani, è lei che nutre la loro speranza in un futuro dignitoso.
In un mondo dominato dalla violenza, in cui anche i paesi democratici legittimano la guerra definendola “umanitaria”, Aung San Suu Kyi è diventata un esempio per tutti di come sia possibile lottare per la libertà e affrontare i conflitti con mezzi pacifici. Lo ricorda Paolo Pobbiati, presidente della sezione italiana di Amnesty International: «In un momento difficile come questo sarebbe bello vedere affermarsi figure che esprimono la volontà di pace, di non violenza, che parlano di riconciliazione a una controparte ottusa e violenta. Sarebbe bello vedere affermarsi in un paese del Terzo Mondo un modello autoctono basato sulla democrazia e sul rispetto dei diritti. Il pensiero di Suu Kyi non è soltanto una speranza per il popolo birmano o per tutti gli oppressi: fa parte del patrimonio dell’umanità» (5).
Cati Schintu
Note
1. Nel 1989 la giunta militare cambia il nome della Birmania in Myanmar e della sua capitale Rangoon in Yangon.
2. Aung San Suu Kyi, Lettere dalla mia Birmania, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2007.
3. Dal sito http://www.dassk.com (in inglese), dedicato alla leader birmana.
4. Dal sito http://www.articolo21.info.
5. Dalla Premessa alla nuova edizione del libro di Aung San Suu Kyi, Liberi dalla paura, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2005.