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Il web è uno strumento meraviglioso, nato vent’anni fa, che ci permette di conoscere, sapere, vedere, ascoltare, interagire, parlare, esprimere, connetterci con ogni più piccolo punto della terra con un’estensione e una libertà che non avremmo mai immaginato.

Ma ogni strumento può essere usato bene o male.
Come un coltello, di cui ci serviamo in cucina e che può divenire arma letale, anche la parola, che può articolarsi in versi alati può divenire oggetto per ferire offendere denigrare calunniare fino ad uccidere.
Così si passa dalle parole all’insulto, perfino all’atto violento.
La designazione a ministro di Cecyle Kyenge ha scatenato beceri commenti razzisti, insulti che fanno vergognare chi invece ritiene un buon segno una scelta che non dovrebbe far discutere né commentare tanto dovrebbe essere normale e scontata.
E gli attacchi al Presidente Boldrini, volgari e certamente privi di fantasia, ma non per questo meno odiosi e deprecabili. Ci si domanda del perché tanto odio, tanta violenza. Specie verso le donne.
Dal virtuale al reale, l'omicidio declinato al femminile, il femminicidio, termine che personalmente ritengo odioso, ma che bene esprime e racconta la spaventosa ampiezza del fenomeno.
Il web, la vita, la violenza, la morte.
Il dibattito che si sta sviluppando in questi giorni alimenta le voci di commentatori, politici, intellettuali.
Stefano Rodotà dice, giustamente, che le leggi per colpire i reati sul web ci sono, basterebbe applicarle, anche se questa è una considerazione che si può fare su molti reati che in Italia restano impuniti nonostante le migliaia di pagine che legiferano a proposito.
Ma sul web tutto si diffonde rapidamente, anche le minacce e le diffamazioni.
Ma allora di cosa c’è bisogno?
Di maggiore civiltà certamente, quella che tutti invochiamo a parole ma che non vediamo mai applicata.
Di rispetto, per se stessi e per gli altri a prescindere da tendenze sessuali o politiche, idee religiose, convinzioni e scelte di vita.
Occorrerebbe sempre e solo parlare se c’è veramente qualcosa di interessante da dire, se si crede o ritiene di poter aggiungere qualcosa al dibattito o al pensiero altrui, senza per questo dover fare a pezzi il prossimo.
Ma oggi a me pare di assistere – fuori e dentro la rete – ad una di quelle risse nate in strada tra due persone che nemmeno si conoscono, ma ci si ferma a guardare per schierarsi subito da una parte o dall’altra ritenendosi in dovere di intervenire non per sedare gli animi, ma per cominciare a menar le mani pur di partecipare a qualcosa che non si sa cosa sia, ma intanto buttiamoci nella mischia.
Se una volta lo strumento era l’odiosa lettera anonima per esprimere il proprio scontento o per affossare definitivamente un avversario scomodo, oggi ci si adopera con la tastiera, ci si trincera dietro uno pseudonimo o si usa un nome esistente, meglio se di una persona famosa, e si inizia a picchiare duro.
E le donne? E il femminicidio?
Personalmente non credo molto nella task-force che si intende creare appositamente. Così come non credo a tavoli e ad assemblee per affrontare e risolvere questioni più o meno gravi.
In qualsiasi tipo problema oggi non si fa che dire “si aprirà un tavolo per affrontare la situazione…”.
Non apriamo tavoli né sedie né altri mobili: è inutile continuare a riunirsi per parlarsi addosso perdendo tempo, bisogna muoversi ed agire subito con i mezzi di cui si dispone – e ci sono – ed usarli finalmente per arrivare ai risultati auspicati.
Forse mi sbaglio, non ho voce in capitolo e non sono altro che una persona che soffre e partecipa a quanto vede e sente.
Spero di sbagliarmi. Lo desidero fortemente.

Tiziana Franchi

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