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Stamane ho sentito per radio alcune interviste rilasciate da passeggeri della nave Costa “Serena”, che sta solcando i mari sulla stessa rotta della gemella “Concordia”, tuttora “spiaggiata” di fronte all’isola del Giglio, lugubre feretro di persone mancanti alla triste conta delle vittime.
Le dichiarazioni rilasciate spaziavano dal “Se dovessimo stare a guardare tutto quello che succede non ci muoveremmo più da casa”… “Sì, all’inizio abbiamo avuto un po’ di titubanza ma poi ci siamo detti che questa crociera, partita immediatamente dopo l’altra, sarà la più sicura”… “Non potevamo mica rinunciare, aspettavamo questo momento da molto tempo”, altri si spingevano a dire che non avevano nessuna intenzione di privarsi di questo “sogno” ed erano anche un po’ infastiditi dalle domande pressanti della giornalista che con grazia un po’ timorosa sembrava farsi mille scrupoli per non offendere le loro sensibilità.

Addirittura l’inviata riferiva che mentre la nave transitava di fronte al Giglio sul ponte c’era solo una decina di passeggeri. Gli altri erano tutti intenti a ballare, ad assistere a spettacoli teatrali, di  magia e comunque a tenersi impegnati con intrattenimenti di ogni tipo.

Certo “The show must go on…”, certo la vita va avanti,  ma questa cosa mi fa ragionare su come siamo diventati, su come siamo inghiottiti dalle notizie, dall’informazione, da questo mostro mediatico che tutto macina e tutto risputa a striscioline e coriandoli come una macchina distruggi documenti.

Oggi è lo tsunami, ma abbiamo appena il tempo di digitare sul nostro cellulare un veloce sms a un numero di cinque cifre per destinare un miserabile euro, che subito arriva il terremoto dell’Aquila, pochi giorni di ribalta  mediatica e poi ecco gli sbarchi a Lampedusa e la scomparsa di un’adolescente, ritrovata più avanti sepolta in un pozzo e poi un’altra abbandonata in un campo a pochi metri da casa e poi a una ragazza musulmana uccisa da parenti che non ne accettano l’occidentalizzazione… poi un attentato, un morto eccellente, una violenza su una ragazza, un pacco bomba, l’ennesimo omicidio a Roma, qualche incendio a campi rom, uno scandalo a sfondo sessuale (il più ghiotto), alluvioni, morti, feriti, l’Italia che frana e che crolla, e poi un naufragio, ma è cosa di pochi giorni, alla fine tutto si digerisce, tutto si assimila, tutto si dimentica, salvo utilizzare il “set” dell’avvenimento come meta di una gita domenicale per qualche foto e un po’ di riprese video, tanto per testimoniare ai posteri “io c’ero” e chissenefrega dei morti.

E così andiamo avanti, tra facebook, twitter, youtube, youreporter, sms,  messaggi sgrammaticati lanciati in rete, fotografie scattate con cellulari sempre pronti alla ripresa, nella speranza di ritrovarsi davanti a una telecamera che ci riprende e a un giornalista che ci fa domande stupide a cui risponderemo ancora più stupidamente, con quell’espressione che nemmeno riesce a trattenere il sorriso compiaciuto di chi sa che finalmente è arrivata la sua occasione, al più fingendo una commozione che siamo ben lungi dal provare.

Ho ascoltato pochi giorni fa un’intervista a Marina Massironi, interprete in questo periodo di La donna che sbatteva nelle porte, pièce teatrale tratta dall’omonimo romanzo di Roddy Doyle, la storia bella e amarissima di una donna vittima della violenza subita dal proprio uomo, sopportata per troppi anni e sempre giustificata dalla frase “Ho sbattuto contro una porta” riferita a medici e paramedici venuti a visitarla sempre senza approfondire, sempre guardando solo le ferite fisiche e compiangendola per quel vago sentore di alcool. Un grido di dolore trattenuto e mai palesato, una sofferenza profonda.

Forse non c’è nesso tra gli avvenimenti di cronaca e questo libro, forse sono io che non riesco a farmi passare l’angoscia che provo di volta in volta, che  non cancello per rimpiazzare, ma accumulo, ricordo, somatizzo, compatisco, condivido e aggiungo lo stupore allo sdegno all’amarezza e alla constatazione che in fondo tutto ciò che pare unire in una rete universale in fondo divide e cancella le idee, la memoria, i sentimenti per frullare in un unico contenitore tutto quanto. Tanto poi si  butta.

A questo mi piacerebbe porre rimedio. O almeno mi piacerebbe provarci.

Tiziana, quasi sessanta, Torino

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